berliChe i politici non siano proprio il trionfo della simpatia per il popolo è cosa risaputa. Parlarne è sempre un tantino complicato. In questo caso la storia di un uomo, importante, decisivo per milioni di persone, addirittura, in alcuni casi, per le sorti di una nazione, si intreccia con quella della nostra Repubblica. E lo fa in un periodo straordinariamente ricco di eventi, belli e brutti, ma soprattutto brutti, che hanno segnato i 40 anni dalla fine della seconda guerra mondiale al 1984. L’uomo al quale è dedicato questo video è Enrico Berlinguer, sassarese, del 1922, famiglia di antica nobiltà sarda, decisamente antifascista durante il ventennio, con il padre avvocato, socialista.
Muore da “eroe comunista”, subendo un ictus sul palco di Padova, durante un comizio elettorale nel 1984. Più di un milione di persone parteciperanno ai suoi funerali a Roma. L’effetto della sua scomparsa porterà, per la prima e unica volta, il suo partito ad essere il primo in Italia, anche se per una manciata di voti.
É davvero difficile raccontare la sua storia in poco tempo, perché la sua azione politica è stata così importante che ogni piccolo passo dovrebbe essere ripercorso e non c’è il tempo per farlo.
Il ragazzo Enrico a scuola non va molto bene, tranne in poche materie: storia e filosofia su tutte. Ma legge molto, moltissimo, testi difficili, Bakunin per esempio, e volumi di filosofia ed economia politica. Poi va a giocare a carte nelle osterie e incontra contadini e operai, quella classe sociale che comincia a conoscere e che sarà influente sulla sua scelta: diventa comunista. Un tipo peperino, entra nel neo-rinato PCI, partecipa alle lotte di classe, anche dopo la liberazione dell’isola, le lotte per la fame che attanaglia l’isola, la rivolta del pane, come viene chiamata. Viene arrestato come fomentatore dei disordini e si fa tre mesi di carcere. É allora che il padre, trasferito a Salerno, dove è nato il governo di unità nazionale, lo presenta a Togliatti, il grande leader del Partito Comunista Italiano. É l’inizio di un viaggio che non avrà termine, fin che ci sarà vita nel corpo di Enrico, un viaggio pieno di alti e bassi, un viaggio affascinante, che merita di essere raccontato. La bibliografia sulla sua vita è praticamente infinita. Pubblicazioni, documentari, le sue innumerevoli interviste, i film, i resoconti dei compagni di partito, un sacco di materiale consultabile senza problemi, fin troppo per chi deve sintetizzare il tutto.
Il racconto può essere sviluppato su due piani, complementari e diversi: i suoi rapporti con il mondo del socialismo reale, quello in mano ai burocrati dell’Unione Sovietica, e quelli interni, con risvolti di generi molto diversi: conflittuale con Fanfani, di stima e vicinanza con Aldo Moro, pessimo con Bettino Craxi.
Bisogna, prima di tutto, toglierci dalla mente quello che oggi chiamiamo comunismo o anche solo sinistra. Durante la vita di Enrico, dal 1961, il muro di Berlino è solidamente presente, così come la storia che parte dagli scritti di Marx ed Engels, così come la rivoluzione di Ottobre, vero spartiacque per ogni comunista sulla faccia della terra. Le “tesi di Lenin” non sono discutibili: sono dei dogmi da seguire alla lettera. Il punto di riferimento per il giovane Berlinguer e per tutto il partito, è un’icona del comunismo sovietico: Iosif Stalin, il capo supremo, quello che ha sconfitto il nazifascismo, che ha riportato la pace in Europa. Il comunismo, insomma, è quello vero, quello della dittatura del proletariato, dell’attesa di una rivoluzione di popolo, quello del centralismo democratico, che significa che i vertici decidono e gli altri, tutti dietro. In questo mondo l’URSS è il faro da seguire, senza di lei nessuna possibilità di vittoria e il PCUS (il Partito Comunista dell’Unione Sovietica) detta la scaletta, i passi da fare, i comportamenti da tenere. Questo è il punto di partenza e va tenuto ben presente. Non si possono altrimenti giudicare i risultati ottenuti da Enrico Berlinguer.
Il primo timido vagito di una dissonanza da questa impostazione autoritaria è di Togliatti, la cui adesione al Cominform (l’unione dei partiti comunisti europei) avviene, nonostante la sua convinzione della necessità di una via nazionale al socialismo. Berlinguer in questo periodo è legato strettamente a Togliatti e ne condivide pienamente le scelte.
É un periodo complicato, e lo diventa ancora più quando Togliatti viene ferito in un attentato. Lo sciopero generale esplode molto prima che i sindacati se ne rendano conto: operai e contadini scendono in piazza. Il governo schiera l’esercito, ci sono dei morti. Togliatti dall’ospedale predica la calma. Alla fine, tutto si ferma, torna la calma, la vita riprende normalmente. É un periodo difficile anche per i giovani comunisti. Il Fronte della gioventù (l’unione dei giovani di diversi orientamenti) si sfalda e il Pci fa nascere la FGCI, mettendovi a capo proprio Enrico. Comincia la sua vita di responsabile di una costola importante del Partito. Non solo, diventa segretario della federazione internazionale dei giovani comunisti. Alloggia a Budapest una settimana al mese, conosce e incontra rappresentanti importanti del mondo socialista dell’Est europeo. Nel 1951, a Berlino, è chiamato a dirigere una riunione di 250 mila giovani di ogni partito comunista europeo. Fa un discorso “sovietico”, tutto imperniato sulla lotta all’imperialismo, sulla necessità di seguire l’URSS, parla di Scelba in modo molto critico, insomma un discorso dal forte odore di propaganda marxista. In Italia, un giornalista, che diventerà famoso più tardi, Sandro Paternostro, scrive sul Tempo resoconti allucinanti su quanto detto da Enrico, resoconti del tutto inventati, secondo alcuni dettati direttamente dal governo USA. Così al rientro in Italia il passaporto gli viene ritirato, senza troppe spiegazioni. Il fatto appare grave: Berlinguer rappresenta pur sempre la Direzione del secondo partito italiano. Ci sono interrogazioni parlamentari, reazioni all’estero, in Francia e perfino in Cina. Ci si mette anche la Chiesa, parlando di sesso libero nei raduni comunisti (siamo nel 1951, ricordiamolo), perfino di malattie contratte durante le riunioni, come colera e tifo; Pio XII scomunica tutti i comunisti. La Federazione Giovanile Comunista nasce in questo clima. Berlinguer ne diventa segretario. Il confronto con la gioventù cattolica è impietoso, per numero di iscritti, per organizzazione, per risorse. Il tentativo di rimontare si appoggia su aspetti ludici, i circoli, le sale da biliardo, i tornei di carte, il biliardino, a scapito della creazione di una coscienza politica. Scelte che non possono durare. Piano piano la FGCI perde iscritti, ci sono liti interne, i metodi di Berlinguer, che rimane ferreo nelle posizioni di sempre, sono troppo dure, forse arcaiche, mentre arrivano gli universitari che spingono per quei cambiamenti che negli atenei si cominciano a richiedere. Arriva a sostituirlo Giuseppe D’Alema (il padre di Massimo) e scoppia un contrasto tra i due, che i vertici del PCI non possono sopportare. A casa entrambi, sostituiti da Enzo Trivelli. Berlinguer ha trent’anni ed esce di scena: è ora di avere un ruolo all’interno del PCI, quello vero, quello di Togliatti e di Luigi Longo, il vice segretario. Berlinguer comincia il suo viaggio fedele alla linea comunista, la più tradizionale possibile, quella sovietica.
Nella vita di tutti, ci sono episodi determinanti. Sul piano politico, si tratta di eventi che possono cambiare la storia non solo dell’individuo, ma dell’intero percorso storico, possono significare smottamenti e terremoti, cambiare le condizioni, i parametri, le convinzioni per quanto radicate possano essere. Uno di questi eventi avviene nel 1953, quando “baffone” Stalin muore e, dopo poco, gli succede un militare proveniente dalle campagne ai confini con l’Ucraina, Nikita Krusciov, che avrà un ruolo più che decisivo per gli sviluppi della storia che stiamo raccontando. Lo stravolgimento avviene, ufficialmente, durante il 20° congresso del PCUS nel 1956, quando il vicepremier Anastas Mikoian critica le scelte di politica estera di Stalin, cosa che sembra quasi una eresia. Ma il colpo di cannone viene sparato il giorno dopo, quando, assenti i delegati stranieri, Krusciov mette un carico da 90, presentando il cosiddetto Rapporto segreto. Qui non è più questione di scelte politiche da parte di Stalin, ma di una sua mostruosa abitudine al massacro, al genocidio, ad atti terribili nei confronti della popolazione. Possiamo facilmente immaginare la faccia allibita dei delegati. Un mito crolla in poche ore, ma un mito di quelli che nessuno avrebbe osato nemmeno lontanamente mettere in discussione.
Anche in Italia la notizia esplode come una bomba e si può ben capire il disorientamento dei militanti comunisti, che hanno tenuto in cucina la sua immagine, come fanno i cattolici con quella del papa. Berlinguer è tra questi, vista la sua fiducia totale per la storia recente dell’URSS.
Ma il 1956 riserva ben altre sorprese. In Ungheria in ottobre, scoppia una rivolta contro il regime socialista. L’Unione Sovietica non trova di meglio che mandare l’esercito e invadere Budapest coi carri armati. Ci sono 2'500 morti, 250 mila ungheresi scappano in Occidente. Non ci sono dubbi sul ruolo che l’URSS intende svolgere verso i cosiddetti stati fratelli. Delle masse popolari e delle loro ambizioni non gliene importa nulla.
In Italia, tenere assieme il partito è complicato: il mito di Stalin è ancora ben radicato. Berlinguer viene spedito in Sardegna a rimediate ad una elezione regionale andata male. Non è molto contento di essere fuori dai giochi che contano, proprio in quel periodo burrascoso. Accetta e condivide comunque le posizioni di Togliatti.
Ma i fatti ungheresi non scorrono senza conseguenze. Il Partito cala i propri iscritti, si formano frange estremiste sia a destra che a sinistra. Togliatti è costretto ad estromettere dai centri decisionali numerosi compagni.
Sono anni di cambiamenti importanti. Il governo Tambroni impone una riflessione sul ruolo dei partiti. Negli USA sale alla Casa Bianca John Kennedy, al soglio pontificio Giovanni 23°, Krusciov continua la sua battaglia contro Stalin e si mostra più possibilista nei confronti di una distensione internazionale e di una discussione sul disarmo. L’URSS torna, anche per questo, ad essere punto di riferimento per i militanti del PCI. Eppure qualcosa cambia anche dentro il partito di Togliatti. La relazione, che Togliatti affida a Berlinguer e Bufalini, è chiarissima: È inammissibile il costruirsi di frazioni e correnti all’interno del partito, “ma ciò non esclude il libero confronto delle opinioni e la manifestazione aperta dell’eventuale dissenso” sia nelle discussioni sia col voto, come è previsto dallo statuto.
É un passo importante, che si muove contro il centralismo democratico, che sancisce la verità assoluta dei dirigenti.
Un altro episodio si consuma nel 1964. Il PCUS convoca tutti i partiti comunisti per condannare la Cina, che vuole fare come le pare, seguire indicazioni maoiste ben diverse da quelle sovietiche. Togliatti non è d’accordo. Crede sia giusto che ognuno scelga la propria strada, la via nazionale al socialismo. Scrive un memoriale in cui riporta tutto quello che non gli piace del sistema sovietico. Non fa in tempo ad usarlo quel memoriale: finisce nelle mani del Vicesegretario Longo, perché Togliatti muore, in quei giorni, a Yalta per una emorragia cerebrale.
Cosa farne del “testamento togliattiano”? Contiene forti critiche al sistema sovietico e alle società satelliti dell’Est europeo, preoccupazioni per lo spostamento a destra degli USA dopo la morte di Kennedy e dei cattolici dopo la morte di Giovanni 23°. Un dossier pesante e pericoloso: pubblicarlo? O aspettare tempi migliori? Alla fine Longo decide di farlo conoscere. É una buona mossa, perché sarà una copertura politica per le scelte che, proprio con Longo e Berlinguer, stanno per arrivare.
C’è una gustosa scena in un film di Peppone e Don Camillo, quando i nostri eroi entrano in camera per la notte notando sulla parete del corridoio il ritratto di Krusciov. La mattina dopo quel ritratto non c’è più, è sostituito da quello di Leonid Breznev. E in effetti la sostituzione avviene proprio così, senza clamori, adducendo una malattia del segretario uscente, ma si è trattato di un vero e proprio blitz contro Krusciov. Al PCI non piace il modo in cui si è messo da parte un leader che, bene o male, parlava di pace e di riduzione degli armamenti. Una delegazione parte per Mosca: è la prima guidata da Enrico Berlinguer. Nei colloqui è fermo e chiaro: chiede che quanto stabilito nel 20° congresso del PCUS sia mantenuto. Del resto ai russi non è piaciuto nulla del testamento di Togliatti: la questione cinese, i problemi della società socialista, i problemi della cultura, della libertà politica, dello sviluppo democratico ....
Si arriva così al 1968, “il sessantotto” per chi c’era, un anno ricco per una infinità di motivi. É l’anno dell’assassinio di Luther King, dei successi sovietici nel campo spaziale e della Rivoluzione Culturale di Mao, che Berlinguer vive durante un viaggio in Vietnam e ne rimane sconcertato per l’assurdo eccesso di propaganda con poca sostanza politica.
Ma è anche l’anno della Cecoslovacchia. Dubcek cerca di avviare una democratizzazione del regime. Al Pci piace, tanto che Longo va a Praga a portare il proprio sostegno. Ma, a tutti, è rimasto impresso cosa è accaduto in Ungheria una decina di anni prima. Così, mentre Berlinguer si gode qualche giorno di ferie sul mar Nero, Cossutta viene convocato urgentemente in ambasciata sovietica. Il PCC (partito comunista cecoslovacco) - gli dicono – ha chiesto l’intervento dell’esercito russo. Ma la comunicazione del PCC non c’è. Cossutta la chiede inutilmente e, mentre se ne vanno, l’ambasciatore fa marcia indietro. Fate finta di non aver sentito niente, dice, come a cercar di coprire un’informazione che gli è scappata, ma che doveva tacere. Mancano 4 ore all’azione dell’esercito sovietico, all’invasione di Praga. In Occidente, il PCI è l’unico a sapere cosa sta per accadere, ed è il primo a pubblicare su L’Unità la terribile notizia. Esprime grave dissenso per quell’azione, offre tutta la propria solidarietà al popolo ceco; ma aggiunge che il dissenso non toglie la convinzione che sia giusta la via sovietica al socialismo. Nonostante la brutalità, si mantiene ancora un filo che lega i due partiti. Non è ancora tempo di spezzarlo del tutto.
Solo a novembre Breznev e Suslov, chiedono un incontro con una delegazione dei comunisti italiani, per convincerli che l’invasione della Cecoslovacchia si era resa necessaria per sconfiggere la controrivoluzione, che erano stati i dirigenti di Praga a chiamarli e altre bugie del genere. Longo ha un’emorragia cerebrale. É Berlinguer a guidare la missione a Mosca. I toni sono duri: quella cosa non si doveva fare, se ci sono problemi nella società ceca, tocca al PCC risolverla non ai carri armati dell’Armata Rossa. I vertici del PCUS insistono per un comunicato comune, ma Berlinguer si oppone, fino all’ultimo. Solo un comunicato stampa sull’avvenuto incontro. La sola frase che Berlinguer continua a dire è “La cosa immediata da fare è il ritiro delle truppe d’occupazione.
La vicenda di Praga è una conferma di quanto avvenuto in Ungheria nel ’56 e la reazione dei dirigenti comunisti italiani fortifica la posizione di Berlinguer alla guida del Partito. Diventa Vicesegretario, ma con Longo in condizioni di salute precarie, è di fatto il nuovo leader. Dirige ed apre il 12° congresso del febbraio 1969. Il suo rapporto è un’altra mazzata contro i dogmi marxisti-leninisti. Nella sua relazione ne ha per tutti. C’è la situazione ceca ovviamente, c’è il rapporto da tenere con i giovani che contestano l’autoritarismo di una società invecchiata senza accorgersi dei tempi che cambiano, c’è il discorso sull’opposizione interna, tollerata anche se non benedetta, una opposizione che ha visto alcuni compagni uscire dal PCI per formare un nuovo gruppo, quello del Manifesto. E poi la novità, almeno pubblicamente: i rapporti con le altre forze politiche italiane. Le parole sono, come sempre, chiarissime. Parla dell’utilità di «forme di avvicinamento e d’intesa anche parziale tra forze politiche democratiche le più diverse». (1)
É l’avvio di un lungo iter che porterà aria nuova nel partito e sfocerà nel compromesso storico e nell’eurocomunismo. Quel che è certo è che si sta aprendo una nuova fase nel PCI e a guidarla non può essere che Enrico Berlinguer.
Il nuovo corso è messo alla prova fin da subito, in preparazione della conferenza mondiale dei partiti comunisti. Alla “riprovazione” per i fatti di Praga, il Pci aggiunge altra carne al fuoco. Vuole che si discuta su quello che non funziona nei paesi socialisti del blocco sovietico. É una specie di scisma, che il Comitato Centrale approva. A Mosca, Berlinguer tiene il discorso più duro che un comunista abbia mai fatto in URSS. I temi sono esplosivi: la via nazionale al socialismo, il difficile rapporto URSS – Cina e nemmeno a Pechino le manda a dire con tutta quella esagerata propaganda. Chiede che si punti davvero alla pace, che vengano coinvolti i paesi poveri, affamati. Breznev presenta un documento irricevibile da parte del PCI. Ci sono tentativi di far firmare Berlinguer fin sulla scaletta dell’aereo che li sta per riportare a Roma. Alla fine Breznev chiude il discorso con una battuta (che tanto battuta non è): “Il Partito comunista italiano è un grande partito che sa quello che fa. Quando dice di sì è sì, quando dice di no è no. Le cose che uniscono sono comunque superiori a quelle che ci dividono.”
Lo “strappo” comincia da qui.
Arrivano gli anni ’70, che sono quelli decisivi per le scelte del PCI sulla politica italiana. Anche se qui non entriamo nella questione a fondo, non possiamo dimenticare le bombe nere (a Milano, a Brescia, a Bologna), la grave crisi sociale legata all’autunno caldo, la defezione degli iscritti ai partiti, a seguito delle novità imposte dalle riflessioni sulla contestazione studentesca e poi operaia. Si comincia a discutere di divorzio, a Presidente della Repubblica viene eletto Giovanni Leone con una manciata di voti missini. C’è, a fianco della strategia della tensione, una guerriglia urbana che vede gruppi di sinistra e di destra affrontare il sistema, spesso armi in pugno e spesso ci scappa il morto.
Nascono nuovi termini, come “gambizzazione” ed “opposti estremismi”. Quest’ultimo servirà alla Democrazia Cristiana nella sua battaglia elettorale. Berlinguer continua nella sua visione dell’unità, più che mai necessaria in quel clima, delle masse democratiche e antifasciste, quindi comuniste, socialiste e cattoliche. Se da un lato il socialista rampante, Bettino Craxi, si oppone con forza a questa ipotesi, temendo di vedere il PSI schiacciato tra le due superpotenze (in termini di voti), succede dall’altra parte del mondo un fatto che convincerà il PCI a rafforzare quell’idea e a darle un nome preciso: compromesso storico. Il fatto è il terribile colpo di stato cileno ad opera di Augusto Pinochet, sostenuto con molta chiarezza dagli Stati Uniti e dovuto, secondo Berlinguer, alla debolezza di un governo socialista (quello di Salvador Allende) che non era riuscito a coinvolgere tutte le masse popolari.
Il compromesso storico e i rapporti molto turbolenti e complessi con gli altri partiti italiani è una storia da raccontare a parte. Vi entrano brani cruciali del passato della nostra repubblica: il referendum sul divorzio, la sconfitta di Fanfani e della DC, i rapporti con Aldo Moro e più tardi il suo assassinio ad opera di una colonna delle Brigate Rosse, la posizione di fermezza nel non voler trattare coi brigatisti, l’escalation pazzesca delle violenze di bande armate nere e rosse, la strategia della tensione e gli anni di piombo e soprattutto il difficile rapporto, a cominciare dall’affare Moro, con Bettino Craxi, segretario del Psi a partire dal 1976.
Il 13° congresso del PCI acclama Enrico Segretario, riconoscendo in lui quello spirito innovativo che apparterrà anche ad un personaggio che incontra per la prima volta ad una festa dell’Unità, Michail Gorbačëv, che sarà, di là a non molto, il riformatore del PCUS. Gli anni seguenti sono quelli più luminosi: gli eccellenti risultati elettorali del 1975-1976, fanno del PCI una forza determinante nel paese. Un terzo degli elettori italiani vota comunista, come in nessun altro paese al mondo (dove esistano le elezioni libere). Sono anni importanti anche nel resto del mondo: la Grecia riacquista la democrazia, i vietcong rimandano a casa le truppe statunitensi, Nixon è costretto a dimettersi per lo scandalo Watergate, ma soprattutto i partiti comunisti più importanti d’Europa, quelli francese, spagnolo e italiano, danno vita, seguendo le ormai storiche idee di Berlinguer, all’eurocomunismo, in cui la via nazionale, indipendente da Mosca o da qualsiasi altro elemento esterno, viene considerata l’unica possibile.
É in questo clima che Leonid Breznev apre i lavori del 25° congresso del PCUS. Parla sei ore, attacca a più riprese l’eurocomunismo, senza nominarlo mai, ma ricordando la necessità di seguire le leggi proposte a suo tempo dalla conferenza dei partiti fratelli. Sono le leggi proposte nel 1969, ma rifiutate dalla delegazione italiana.
Berlinguer parla il quarto giorno. In sala ci sono proprio tutti: cinquemila delegati sovietici e i vertici delle delegazioni straniere vedono volti di grande importanza all’epoca: Honecker per la DDR, Ceausescu per la Romania, Kadar per l’Ungheria, Gierek per la Polonia. Marchais e Carrillo hanno rifiutato l’invito. Il discorso di Berlinguer non dice niente di nuovo: col suo tono pacato elenca i punti della sua politica, con calma, senza uscire dal suo personaggio. Ma questa volta ha di fronte 5000 politici sovietici, i quali restano a bocca aperta di fronte a tanta insolenza nei confronti del loro paese, guida del socialismo mondiale. Nella enorme sala cala un gelo impressionante. A quei delegati nessuno aveva mai detto niente dei dissidi possibili o probabili dei comunisti di altri paesi nei confronti dei dogmi stabiliti da Lenin e successori. L’eco, soprattutto sulla stampa americana, è enorme ed è curioso che, oltre al Guardian, anche il NYT titoli in prima pagina a cinque colonne: “Il ‘rosso’ italiano assume una linea indipendente”, come se i servizi degli USA non sapessero ogni piccola cosa del pericoloso nemico sardo.
Nonostante quanto avvenuto durante il congresso, i vertici sovietici hanno una certa ammirazione per il politico italiano e non vogliono lasciarlo andar via senza salutarlo. Lo fanno però in modo diverso dal solito. Lo raggiungono Breznev, Suslov e Ponomarev e si fanno scattare una foto. I tre enormi omoni russi con il petto stracarico di medaglie circondano il mingherlino sardo, con la sua giacchetta disadorna. Sembra quasi un monito.
In Italia comincia la fase più difficile da spiegare ai militanti, quella di un partito che vuole partecipare alle decisioni politiche del paese, ma non può far parte del governo. Ancora si inventano nuove definizioni come “la non sfiducia”, che il PCI applica ad un governo monocolore democristiano. C’è anche un accordo, una specie di scaletta delle priorità. Chiamarlo programma di governo sembra decisamente esagerato. Ma i vizi dei papabili democristiani e dei nuovi arrivati nella stanza dei bottoni, i socialisti, sono duri a morire e continuano gli scandali più o meno grandi e il coinvolgimento dei politici in essi. Insomma il PCI non vuole uscire dal suo modo di pensare (il compromesso storico, l’unità delle masse popolari), ma non può stare assieme a dei briganti. Questo pensa il militante nella sua sezione.
Intanto, siamo nel 1977, Breznev convoca i partiti comunisti per i 60 anni dalla rivoluzione d’ottobre. La scena si ripete proprio come un anno e mezzo prima. A Berlinguer danno 7 minuti, a lui ne bastano 6 e mezzo per ribadire ancora e ancora i suoi punti essenziali:
  1. non possono esistere tra loro partiti che guidano e partiti che sono guidati;
  2. “(…) la nostra lotta unitaria (…) è rivolta a realizzare una società nuova – socialista – che garantisca tutte le libertà personali e collettive, civili e religiose, il carattere non ideologico dello Stato, la possibilità dell’esistenza di diversi partiti, il pluralismo della vita sociale, culturale e ideale.”
Per un comunista ortodosso è una sfilza di bestemmie, perché in questa frase c’è tutta la critica ferma dei risultati (non)ottenuti dal socialismo reale nei paesi dell’est e quindi della guida maldestra dell’Unione Sovietica. Per tutti gli altri è, invece, una conferma della democraticità del PCI: Ugo La Malfa propone l’entrata dei comunisti al governo. Non succederà, non succederà mai.
Gli anni difficili della guerriglia, degli attentati, del rapimento di Moro, portano il PCI ad una grave sconfitta elettorale nel 1979. Gli animi si scaldano anche dentro un partito monolitico come il PCI. Ci sono dissidi nella direzione, dissidi di “destra” se si può usare questo termine. La Direzione del partito viene rinnovata: entrano tutti fedelissimi di Berlinguer e la linea del partito resta quella: ci vuole unità di tutte le masse democratiche per uscire dal pantano di quegli anni.
C’è un altro fatto. Avviene in Afghanistan. Qui c’è un partito comunista debole, addirittura spezzato in due fazioni, Kalk e Purcham, in perenne disaccordo tra loro. Hanno un potere politico quasi nullo, pochi seggi in parlamento. Poi, improvvisamente, si riuniscono e prendono il potere, uccidendo il principe regnante e suo fratello. Il governo è guidato dal Kalk, il Purcham viene lasciato fuori. Un’occasione d’oro per trasferire qui il modello sovietico. Ma gli afghani sono prevalentemente pastori, legati alle loro tradizioni non solo sociali, ma anche religiose, non sono semplici da convincere. Breznev così, invece di mandare consiglieri, invia elicotteri portamissili e soldati dell’esercito. I contadini devono condividere i propri orti con lo stato, le donne entrare in fabbrica, un sovvertimento dell’ordine ancestrale inaccettabile. Non è un’opera di convincimento, è un’azione di guerra, imperialista, colonialista. Alla fine l’esercito russo conquista Kabul e mette al potere il rappresentate del Purcham, Karmal, che diventa un pupazzo nelle mani sovietiche.
Il PCI non ha dubbi e pubblica: “Di fronte all’intervento sovietico nell’Afghanistan, che costituisce una violazione dei princìpi di indipendenza e sovranità nazionale, il Pci ribadisce il proprio netto dissenso [...]. Resta più che mai valida la fondamentale verità che i processi di liberazione dei popoli non possono che essere opera dei popoli stessi.” (2)
C’è un ultimo elemento che si aggiunge, negli anni ’80, alla linea berlingueriana. La storia d’Italia è segnata in quel periodo da scandali clamorosi, primo fra tutti quello del petrolio. Sono coinvolte le alte sfere della guardia di finanza e numerosi politici, come Sereno Freato, già segretario di Aldo Moro e poi socialisti e socialdemocratici di secondo piano. In più si aggiunge un devastante terremoto in Irpinia, con lo stato latitante e lento ad intervenire. Se ne lamenta il presidente Pertini, ricordando lo scempio del Belice, dove i soldi, destinati alle popolazioni colpite, nessuno sa dove siano andati a finire.
Berlinguer capisce che è ora di svoltare e cambia i termini della politica comunista. Uscita immediata dall’area governativa (nel senso di appoggio), ci vuole un governo di alternativa democratica. Ma la parola d’ordine che viene lanciata in questa occasione è legata ad “una direzione inefficiente e confusionaria nel funzionamento degli organi dello Stato, corruttele e scandali nella vita dei partiti governativi, omertà, impunità per i responsabili. La questione morale divenuta oggi la questione più importante.” Del resto bastano alcuni nomi per capire la situazione: Marcinkus e lo IOR, Roberto Calvi, Licio Gelli e la P2, … (3)
I contrasti con Craxi e con altri politici del momento (Pannella ad esempio) si acuiscono con l’affare D’Urso, rapito dalle BR, per il quale si ripete la lotta, in modo decisamente più esasperato, tra chi vuole trattare e chi no.
L’ultimo fatto grave e decisivo per le convinzioni di Berlinguer sui rapporti da tenere con Mosca, accade in Polonia. C’è un sindacato, nato nell’agosto 1980 tra i portuali di Danzica, attivo da un anno e guidato da Lech Walesa, che conta 9 milioni di iscritti, il supporto di larga parte degli intellettuali e soprattutto della chiesa cattolica guidata da Roma dal papa polacco e dallo IOR. Solidarnosc ha matrice cattolica, come del resto la stragrande maggioranza dei cittadini, e anticomunista. Nel suo programma, oltre alla difesa sindacale dei lavoratori, c’è l’abbattimento del partito unico per dare vita ad una democrazia basata sul pluralismo. Il 12 dicembre 1981, ecco la soluzione. Avviene con il colpo di stato del generale Wojceck Jaruzelski, che arresta i capi di Solidarnosc e prende il potere, eliminando governo civile e libertà sindacali. Anche il partito è messo fuorigioco. Comanda una giunta militare. La storia ancora oggi non si decide. C’è chi tende a pensare che l’azione di Jaruzelski sia stata fatta per evitare al paese la fine dell’Ungheria nel 56 e della Cecoslovacchia nel 68.
L’Italia, che comprende, è bene non dimenticarlo, un Vaticano molto influente, si rivolge a Berlinguer con un fuoco di fila di domande sulla posizione del Pci sulla questione polacca. C’è una tribuna politica in cui Enrico è, come sempre, chiaro e lapidario quando afferma che la capacità propulsiva di rinnovamento delle società che si sono create nell’Est europeo è venuta esaurendosi. É come un meteorite che precipita sul ruolo del socialismo reale.
Berlinguer delinea il suo pensiero, con calma e fermezza. É chiaro che i comunisti italiani restano fedeli alla loro storia: la rivoluzione d’ottobre, le lotte connesse per i diritti prima inesistenti, per i quali la classe operaia e contadina ha lottato a lungo. Nemmeno Marx e Lenin possono essere semplicemente buttati nel cestino. Qualcuna di quelle idee è ancora valida, ma il resto è superato, non funziona più ed è proprio dalla critica a quegli elementi obsoleti che il PCI ha intrapreso e percorso una lunga strada, che Lenin nemmeno poteva immaginare. Come Berlinguer dice, quella “dei modi e delle forme della costruzione socialista in società economicamente sviluppate e con tradizioni democratiche, quali sono le società dell’Occidente europeo.” Ai militanti italiani non viene nemmeno mezzo dubbio: è solo la più logica conclusione di un percorso che conoscono alla perfezione. La reazione dei partiti comunisti dell’est europeo è, al contrario, di fuoco. Si parla di eresia, di passaggio all’imperialismo, di tradimento. Giornali, radio e televisione russi informano i cittadini, del tutto ignari della situazione. E quella che è stata una lenta e logica evoluzione, diventa per loro un blitz inaccettabile. L’ultima parola spetta alla Pravda, che sentenzia il sacrilegio del PCI, la sua blasfemia e la sua vicinanza alla politica estera degli USA. Cercano di spiegare, i sovietici, che mai il PCUS ha cercato di dettare proprie politiche agli stati del blocco. Dichiarazione evidentemente destinata ai propri sudditi, all’oscuro di tutto. Berlinguer, però non ha ancora finito e le sue parole suonano come un de profundis per i rapporti con Mosca: “(…) la crisi sovietica è dovuta a gravi errori in campo economico, alla centralizzazione autoritaria, ai fenomeni di burocratizzazione, al monolitismo, al prevalere di un dogmatismo chiuso, all’ossificazione delle idee.” (4)
É questa la vera rivoluzione comunista italiana. Si va oltre la lotta di classe, l’appartenenza ad un blocco. Non si sta né con gli Stati Uniti né con l’URSS. Non si può più restare neutrali, come pretendeva Togliatti, occorre prendere posizione sui temi importanti per il proprio paese. Berlinguer è un politico cambiato, diverso, quello che apre il 16° congresso del PCI. É stanco di perdere tempo a litigare coi partiti, a denunciare soprusi e furbizie di questo o di quello. Vuole dedicarsi a fare della società italiana qualcosa di più utile alla popolazione. Denuncia il corporativismo, le classi sociali dimenticate, un crescente consumismo che intacca anche l’ambiente. Sono altre le masse da esaltare, “[… ] come le donne, i giovani e giovanissimi, gli emarginati di ogni strato sociale e di ogni condizione decisi a contare, a imporsi, a far sentire le proprie aspirazioni e ad esigere che siano soddisfatte dalla società, dai partiti, dallo Stato.”
Si tratta – continua - non solo di seguire, di assecondare, ma di comprendere, di far proprie, d’interpretare politicamente e di far pesare nelle scelte politiche le insoddisfazioni, le ribellioni, le rivendicazioni che esprimono le masse contro la corsa agli armamenti, le spese militari, le minacce di guerra.”
Entrano parole nuove nel politichese comunista: “la qualità della vita, l’occupazione, lo svago e lo sport, lo studio e la propria formazione di cittadino, l’amore, il sesso e la vita di coppia, la casa per le giovani coppie, la lotta contro la droga, la difesa dell’ambiente.” (5)
Un nuovo partito, insomma, che dovrà farsi carico di nuove visioni, di nuove battaglie, con un linguaggio diverso, più moderno … ma dovrà farlo senza di lui. Enrico Berlinguer, infatti, muore l’anno successivo.
Non tornerà più a Mosca, nemmeno per i funerali di Breznev. Lo farà solo nel febbraio 1984 per i funerali del nuovo segretario del PCUS, Yuri Andropov. Al suo arrivo non si trova la corona di fiori che avevano spedito. Enrico Berlinguer enuncia, a Massimo D’Alema che l’accompagna, le tre leggi del socialismo sovietico: “La verità non si dice mai; l’agricoltura non funziona, dal momento che non riusciamo neanche a comperare un mazzo di rose; non si riesce a staccare la carta dalle loro caramelle.”
Il 13 giugno 1984, a Botteghe Oscure, dov’è stata allestita la camera ardente, si ferma un’auto blu. Scende l’avversario politico per antonomasia di Enrico Berlinguer, il segretario del Movimento Sociale, Giorgio Almirante. Lo fanno entrare, lui dice: “Non sono venuto per farmi pubblicità, ma per salutare un uomo onesto.

Note
  • Dibattito al 12 congresso PCI febbraio 1969
  • L’Unità, 29 dicembre 1979
  • Direzione PCI 27 novembre 1980
  • Intervista a E.B. de L’Unità 21 febbraio 1982 (concetti espressi nel Comitato Centrale del 12 gennaio)
  • 16° congresso PCI, 1983
Fonti:
Chiara Valentini, Enrico Berlinguer, Feltrinelli, 2014
Giuseppe Fiori, Vita di Enrico Berlinguer, Laterza, 1989, ed 2022
RAI3 – Correva l’anno
Walter Veltroni – quando c’era Berlinguer (documentario)
Quelle parole di Berlinguer – di Stefano Massini
Interviste varie da tribune politiche, tribune elettorali, ecc.
Notizie varie da quotidiani, riviste, giornali d’epoca.