monnezzaPorto fuori la spazzatura”. Quante volte l’abbiamo detto: “fuori” è davanti a casa, in attesa del camion della raccolta differenziata o l’isola ecologica di condominio. Oggi parliamo di un altro “fuori”, di quei rifiuti che finiscono in un’altra nazione o addirittura in un altro continente. E qui le cose cambiano drasticamente.
La società dei consumi, quella in cui viviamo, è fondata sui rifiuti. Senza di essi non esisterebbe.
La rivoluzione industriale del ‘700 ci ha regalato un sistema di produzione “lineare”. Si estraggono materie prime: quelle che servono per realizzare le merci, e quelle che servono per produrre l’energia necessaria alla loro lavorazione. Facendolo, si produce inquinamento e, spesso, devastazione dei territori. Basta pensare alle miniere di ogni genere, sparse ovunque nel mondo. Le materie prime entrano poi nel sistema produttivo: industrie, aziende, artigiani, che ne ricavano le merci. Segue la commercializzazione: pubblicità, distribuzione, vendita. Anche questo ha il suo impatto ambientale: l’etere invaso da onde elettromagnetiche e le strade invase da camion che portano l’acqua del Trentino in Puglia e quella del Molise in Piemonte. Gli oggetti sono arrivati a destinazione, nelle nostre case. L’aspirapolvere, la bibita nella sua confezione di tetrapak, il gorgonzola racchiuso in tre strati di plastica e polistirolo e così via. Ma gli oggetti si rompono e le confezioni non le mangiamo. E non è tutto, perché spesso basta un piccolo guasto per dover ricomprare quell’oggetto, dal momento che è sempre più difficile trovare chi li aggiusta, oppure quel particolare è talmente caro che è più conveniente comprare un oggetto nuovo. Tutto questo fa parte della strategia del mercato: indurre il consumatore a comprare sempre nuova merce, anche se non ne ha bisogno o a sostituirla in un delirio di rinnovamento indotto da una pubblicità martellante. E, alla fine, quegli oggetti rotti o abbandonati, da qualche parte bisogna metterli. Così nasce il rifiuto. Il sistema si chiude qui. Adesso deve cominciare da capo: recuperare nuove materie prime, riavviarle alla produzione e commercializzazione, produrre nuovi rifiuti. É un processo molto vantaggioso per chi lo gestisce: ogni passaggio è caratterizzato da un profitto: perfino l’inquinamento entra nel bilancio, perché anche la bonifica è un business (altro che se lo è!) che procura lavoro e denaro.
Chi ci rimette, allora? L’ambiente e, come è ben noto, le persone che vivono in quell’ambiente, vale a dire noi tutti. Perché non c’è nessuno zio d’America, i danni li paghiamo con moneta sonante e troppo spesso con la salute, perfino con la morte.
Come venirne fuori? Non ci sono molte strade da percorrere: ridurre i rifiuti o cercare di farne qualcosa di utile. Una bestemmia? No certo. Ci sono strategie interessanti, ad esempio la blue economy di Pauli, che trasformano il rifiuto in una risorsa. Un sogno? No! É qualcosa che si può fare benissimo e che viene fatto in centinaia di realtà. Qualcuno, più in generale, parla di economia circolare, in netta contrapposizione con quella lineare di cui abbiamo detto fin qui. La natura è maestra di economia circolare coi suoi cicli vitali
Se, però, non vogliamo o non possiamo seguire queste strade virtuose, occorre chiederci: “E adesso, dove li mettiamo i nostri rifiuti?”.
Prima di capire come funziona, è necessario fare una distinzione importante. Perché ci sono rifiuti e rifiuti. Se butto via un torsolo di mela in un prato sono maleducato, ma se butto via l’olio del motore usato sono un delinquente. Classificare i rifiuti è complicato. Esiste un’apposita normativa, che stabilisce a quale tipologia appartiene ogni rifiuto e lo classifica attraverso un codice (CER). Senza entrare nei dettagli, i rifiuti che produciamo per vivere (i resti della spesa, del mangiare, ma anche quelli derivati dalla spazzatura delle strade, dallo svuotamento dei cestini pubblici e così via) si chiamano rifiuti urbani. A loro volta sono classificati per categorie: secco non riciclabile, carta, vetro, plastica. Questa distinzione è alla base della raccolta differenziata. I rifiuti che provengono invece dalla produzione (agricola, industriale, artigianale) vengono definiti rifiuti speciali.
Un’altra distinzione importantissima divide i rifiuti in pericolosi e non pericolosi. Anche la pericolosità è stabilita da una normativa (link) del 2015, che prevede 15 livelli. Tra questi l’essere infiammabile, tossico, cancerogeno, infettivo, mutageno, e così via. Poi ci sono le scorie nucleari, che non vengono incluse nell’elenco, ma hanno lo stesso maledetto problema, acuito dalla necessità di tenerli fuori dalla portata di chiunque per tempi lunghissimi. In questo video non ne parliamo.
Cominciamo dal destino dei rifiuti urbani. La storia, non solo del nostro paese, non è esemplare da questo punto di vista. Per molto tempo, i rifiuti li abbiamo semplicemente “buttati via”, creando discariche a cielo aperto dalla cima dell’Everest fino agli oceani, dove un mare di plastica galleggia producendo danni enormi all’ecosistema e alla catena alimentare.
Meglio metterli sottoterra – ha detto qualcuno. Così si sono create aree destinate all’interramento dei rifiuti urbani, senza distinzione di nessun tipo: carta, vetro, plastica, e torsoli di mela sono finiti fianco a fianco sotto terra. Le chiamiamo discariche. Queste hanno il solo merito di nascondere le nostre schifezze seguendo il detto popolare … occhio non vede …. Ma le discariche hanno due difetti molto gravi. Il primo è che rilasciano inquinanti e questa azione è destinata a durare molto tempo quando i materiali che vi finiscono dentro non sono biodegradabili. E così, al di là dell’odore cattivo, il rischio è quello di inquinare il terreno sottostante, raggiungendo le falde d’acqua, che vengono utilizzate per il normale consumo di popolazione e produzione agricola e di allevamento. Duque non si tratta solo di un problema etico, ma anche della salute dei cittadini tutti. Questo fatto è acuito enormemente se consideriamo le discariche abusive, di cui il nostro paese è ricchissimo, che sono fatte male e contengono di tutto e di più. La famigerata “terra dei fuochi” è nata negli anni ’70 quando le industrie del Nord hanno preferito utilizzare la camorra per sotterrare abusivamente i loro rifiuti pericolosi, anziché seguire la normativa, che imponeva, per il loro smaltimento, regole precise, ma costose. Alle tipologie dei rifiuti di cui abbiamo detto sono, infatti, affiancate le modalità con le quali “metterli via”. Tanto più pericolosi sono e tanto più meticolosa deve essere la procedura e, di conseguenza, tanto più costosa.
Il secondo motivo per cui le discariche sono una pessima scelta è di carattere economico. I rifiuti interrati – e le materie prime di cui sono composti - sono persi per sempre: il “risparmio” è dello zero per cento!
Il secondo metodo di smaltimento dei rifiuti è quello di bruciarli. É una pratica usata fin dall’antichità, ma bruciarli per strada non è una buona idea, perché la combustione può provocare effetti dannosi anche gravissimi. Così, dagli anni ’60, si sono costruiti dei forni appositi, che chiamiamo inceneritori (il termine termovalorizzatore, usato solo in Italia, è un trucco truffaldino come vedremo tra poco). All’inizio si tratta solo di grandi forni, poi si è pensato di usare il calore sviluppato per produrre energia elettrica. Il rendimento di questo sistema è tuttavia basso e, alla fine, la poca energia prodotta ci lascia comunque senza i materiali che sono stati bruciati e che dovranno essere nuovamente ricavati, lavorati e così via. Significa che non c’è alcuna valorizzazione, se non quella dei conti delle società per azioni che gestiscono gli impianti. In questo caso dunque, dal punto di vista economico, stiamo appena un po’ meglio delle discariche, ma la soluzione è ben lontana dall’essere buona. Va tenuto conto che oltre alle spese di costruzione (elevate) ci sono quelle di gestione (elevate) e quelle dello smaltimento dei prodotti di reazione (ceneri di vario tipo) che devono subire processi di inertizzazione. Alla fine vengono prevalentemente usate (80%) per fare cemento o sottofondi stradali. Se ci limitiamo ai rifiuti urbani, oggi in Italia, meno del 20% viene incenerito, quasi tutto al Nord, dove sono distribuiti la maggior parte degli inceneritori.
A qualcuno viene un’idea: perché dai rifiuti non recuperiamo quello che è possibile e lo immettiamo nel ciclo di produzione come materia prima? In questo modo il ciclo lineare si incurva un pochino, tendendo verso quella economia circolare di cui tanto si parla in questi anni.
L’idea nasce da grandi aziende, che si accorgono che dai loro prodotti buttati via è possibile ottenere molto materiale per fabbricare quelli nuovi. La questione del “riciclo dei rifiuti” dunque nasce per un vantaggio economico.  In Italia il termine “riciclo” compare nelle normative nel 1982. Riciclare diventa un’azione politica ma anche etica, legata alla situazione del pianeta che va peggiorando di anno in anno dal punto di vista dell’inquinamento. Nascono così, nel mondo, aziende che si occupano proprio di questo: raccolgono i rifiuti e cercano di recuperarne il più possibile. Se ci fermiamo a quelli urbani è possibile recuperare praticamente tutto: plastica, carta, vetro, alluminio e anche la frazione non riciclabile in alcuni casi viene usata per creare oggetti: panchine, lastre da giardino e così via.
Il riciclo è oggi spinto da un sistema, CONAI, che coordina sei consorzi, uno per ogni tipologia di rifiuto. Ad esempio COREPLA si occupa di materie plastiche, COREVE del vetro, eccetera.
É una trasformazione epocale, alla base della quale sta il comportamento corretto dei cittadini, chiamati a non buttare tutto nello stesso secchio, ma a separare i rifiuti di vario tipo, secondo le regole comunali della raccolta differenziata. É stato un upgrade difficile nei comportamenti individuali, ma, piano piano, considerando le sempre maggiori sofferenze del pianeta, il riciclo dei rifiuti è diventato una prassi diffusa nel nostro paese. Certo, ci sono nazioni più avanti di noi, ma la maggior parte del mondo soffre, ancora oggi, di un modo barbaro di gestire questo aspetto. Secondo Global Plastics Outlook (link) solo il 9% della plastica mondiale viene riciclata, il resto è bruciato, interrato, disperso. Per quanto riguarda l’Italia, negli ultimi anni sono stati fatti passi da gigante, tanto da raggiungere valori di riciclo molto importanti. Seguendo varie fonti si hanno dati completamente differenti, per cui prendiamo quelli più prudenti. (link) - (riassunto qui) Il riciclo oggi nel nostro paese supera ampiamente il 50% che non è male, anche se potremmo fare di più, soprattutto considerando che il 20% finisce ancora in discarica e il 18% negli inceneritori, soluzioni, come detto, non ottimali. Incrementare il riciclo è doppiamente importante. In primo luogo perché riduce i rifiuti gestiti in altro modo, poco sano e poco conveniente e poi perché è alla base di una filiera importante, che, grazie alla nascita di circa 5 mila aziende del settore, ha prodotto ricchezza e molti posti di lavoro.
Tutto bene dunque?
No! Adesso passiamo alle dolenti note e ci occupiamo degli “altri” rifiuti, quelli pericolosi, quelli che hanno procedure costose per essere smaltiti.
Se guardiamo indietro agli anni della prima repubblica (diciamo fino a tutti gli anni ’90) possiamo notare che i rifiuti ad un certo punto diventano un affare colossale. Quando il pentito di camorra Nunzio Perrella, residente a Thiene (VI), viene arrestato per traffico di droga, sbotta: “Droga? É la monnezza ad essere oro!
Un affare talmente grosso che le grandi organizzazioni criminali ne fanno uno degli asset delle loro attività. Camorra, ‘ndrangheta e cosa nostra si danno da fare. Nascono così tre filoni che servono per smaltire i rifiuti senza dover seguire le costose regole imposte dalla legge. L’interramento di rifiuti tossici dove le “famiglie” sono in grado di gestire i territori. Avviene, da noi, soprattutto in Campania e Basilicata, ma è bene non scordare che il dossier della commissione parlamentare sui rifiuti tossici in Veneto è ricca di centinaia di pagine. E poi c’è l’estero, soprattutto l’est europeo.
Un altro sistema è quello di riempire di schifezze delle navi, farle inabissare in mari profondi, cosa avvenuta per molti carichi e per molti anni da parte della ‘ndrangheta lungo le coste calabre. Ed infine l’esportazione di rifiuti all’estero, soprattutto in paesi “facili”, governati da personaggi corruttibili o con una popolazione letteralmente alla fame. Rientrano in questi filoni anche casi davvero tristi, come le morti di Natale De Grazia e di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin.
Ma c’è di più: queste attività hanno tutte bisogno di coperture a livelli più o meno alti. Spesso sono intervenuti i servizi segreti, addirittura ministri della repubblica, organi di controllo, amministrazioni dei porti e così via.
Ma questo è il passato”, può dire qualcuno. É sempre meglio verificare se, ancora oggi, i rifiuti speciali, quelli tossici prodotti da aziende furbette o addirittura scorie nucleari, hanno tutti destinazioni lecite oppure no.
Recentemente l’UE ha promesso che sarà proibito tra qualche anno l’esportazione di rifiuti verso i paesi “non OCSE” (https://www.consilium.europa.eu/it/press/press-releases/2023/11/17/waste-shipments-council-and-parliament-reach-agreement-on-more-efficient-and-updated-rules/ ), ma anche tra i paesi dell’UE, fatte salve una serie di deroghe. Se ne parlerà comunque tra un paio di anni, quando e se i paesi dell’Unione avranno approvato a loro volta la normativa.
Perché si è dovuto arrivare ad una simile presa di posizione?
Siamo abituati a pensare che rifiuti pericolosi viaggino sempre verso paesi del terzo mondo (il caso della Somalia è emblematico in questo senso), molto meno che gli stati membri dell’UE si “scambino” rifiuti tra loro. Perché mai dovrebbero farlo?
Non si deve demonizzare l’import-export di rifiuti, in fondo si tratta di merci come tutte le altre, ma analizzare perché succede e come. I motivi sono essenzialmente due: la carenza, in loco, di impianti di trattamento (riciclo ma anche incenerimento) e convenienza economica, il che significa che costa meno mandarli all’estero che trattarli a casa propria. Questo fatto è testimoniato anche dalla considerazione che i paesi dell’UE, chi più chi meno, sono contemporaneamente esportatori e importatori di rifiuti. É evidente che alcuni settori hanno una percentuale di riciclo maggiore di altri. Per fare l’esempio dell’Italia, il nostro paese è una eccellenza nel recupero della carta e del vetro, mentre ancora non sono stati raggiungi gli obiettivi europei per la plastica, anche se le percentuali sono buone rispetto a quelle medie continentali. Negli ultimi dieci anni l’Italia ha fatto passi avanti enormi per ogni tipologia di rifiuti riciclati. [vedi dati Eurostat]
Ci sono poi grandi differenze regionali. Ad esempio il riciclo dei rifiuti urbani vede eccellere Veneto e Sardegna con percentuali superiori al 75%, Lombardia, Trentino Alto Adige, Emilia e Marche con percentuali sopra il 70%. Quella messa peggio è la Sicilia con percentuali di poco superiore al 45%. Probabilmente ci sono vari motivi per queste differenze sensibili tra regione e regione, ma soprattutto rimane il fatto che gli impianti adatti al riciclo sono disponibili soprattutto a Nord e molto carenti al Sud, il che impedisce ovviamente di gestire la filiera a casa propria. Lo stesso report segnala una riduzione negli anni di discariche (ma non sono scomparse del tutto) e di inceneritori, attualmente 37. In questo senso la destinazione probabile dei fondi del PNRR per quanto attiene ai rifiuti sarà distribuita più al Sud che al Nord.
L’indirizzo dato dall’UE, attraverso normative e convenzioni è quella di assicurare che la gestione dei rifiuti vada nella direzione dell’economia circolare, vale a dire quella che è in grado di recuperare le materie prime (che diventano “prime seconde”) rimettendole sul mercato o di ridurre (è il caso degli imballaggi) la quantità di materia utilizzata e quindi di rifiuti prodotti. Insomma la vecchia teoria delle 4 R (Riduci, Riusa, Ricicla, Recupera) è ancora oggi alla base delle politiche europee in tema di gestione dei rifiuti.
É allora chiaro che ogni esportazione che vada verso paesi che non garantiscono uno standard sufficiente deve essere bloccata. Se consideriamo i flussi migratori in Europa, abbiamo un quadro quanto mai variegato a seconda del tipo di rifiuto esportato e della destinazione nel paese di arrivo. ISPRA ogni anno pubblica un documento molto dettagliato sui rifiuti prodotti nel nostro paese. Quello del 2022 (link) presenta un paragrafo (il 3.6) dedicato al “trasporto transfrontaliero dei rifiuti urbani”. Tra le molte informazioni apprendiamo (i dati sono del 2021) che noi esportiamo circa 660 mila tonnellate l’anno verso altri paesi UE, soprattutto Austria, Spagna e Portogallo, che ne accolgono il 40%. Ma l’Italia importa anche rifiuti, circa un terzo di quelli esportati, con grande prevalenza di residui di vetro, di oli e grassi commestibili, di metalli e di plastica. Le regioni che contribuiscono maggiormente all’esportazione sono la Campania (42%) e il Lazio (15%).
Passando alla tipologia, circa un quarto dei rifiuti esportati è costituito da CSS, il combustibile solido secondario. Cos’è il CSS? É un nome inventato dalla politica per i rifiuti non riciclati con potere calorico sufficientemente elevato. In questo modo una notevole quantità di materiali è finita negli inceneritori, ma soprattutto ad alimentare centrali elettriche (come quella di Marghera ad esempio), cementifici, centri di teleriscaldamento e così via. Il recupero, in questo caso, è solo energetico con la solita sottolineatura sul rendimento nella produzione di energia elettrica, mentre è decisamente più alto se il calore si usa per il (tele)riscaldamento. Il CSS finisce in massima parte a Cipro, Austria, Grecia e Portogallo. La seconda voce del nostro export riguarda gli imballaggi, soprattutto di plastica (42%), ma anche di carta e cartone (34%) e di legno (16%).
A leggere il rapporto di Eurostat, l’Italia è uno dei massimi esportatori di monnezza in Europa, raggiungendo circa un quarto del totale esportato dall’intera UE. Secondo questo rapporto la maggior parte dei rifiuti finisce bruciata. C’è anche una quota di rifiuti pericolosi che viene esportata. É una parte piccola rispetto a quelli non pericolosi, ma, ancora una volta, il nostro paese si distingue in quest’opera, piazzandosi al terzo posto nell’UE.
Va sottolineato che questo commercio è del tutto legale, in attesa delle nuove disposizioni proposte dal parlamento europeo. Ci sono regole e norme e convenzioni sul commercio dei rifiuti che risalgono a diversi anni fa. Possiamo ricordare la convenzione di Basilea del 1989, entrata in vigore nel 1992, per controllare il commercio di rifiuti. Successive deliberazioni hanno affinato la legge, sempre nello spirito di questa convenzione. Da questa sono esclusi alcuni tipi di rifiuto, come ad es. quelli radioattivi, perché seguono normative dedicate.
L’UE ha come obiettivo il riciclo (o compostaggio) del 60% dei rifiuti entro il 2030. Attualmente (dati 2021) siamo attorno al 50%, con variazioni molto sensibili tra i migliori (Germania 71%, Slovenia 60%) e i peggiori (Ungheria 35%). L’Italia è messa molto bene nel riciclo degli imballaggi: quarto posto con oltre il 72%.
E tuttavia, nei 9 paesi in cui le discariche sono ormai solo un ricordo del passato (Benelux, Danimarca, Svezia, Germania, Austria, Slovenia, Finlandia) è importante il contributo dell’incenerimento e quindi del recupero di una parte energetica ma non di materia.
Oltre al commercio interno all’UE, c’è anche un commercio che valica i confini dell’Unione. Lo apprendiamo da un articolo del Sole24h di settembre 2023 (link). Si tratta sempre di quantità considerevoli, oltre 33 milioni di tonnellate l’anno, valore che è cresciuto considerevolmente anno dopo anno. La meta largamente più utilizzata è la Turchia, che accoglie poco meno della metà di tutti i rifiuti esportati dall’UE, seguita a grande distanza da India ed Egitto. I materiali ferrosi sono quelli più commercializzati, seguiti, a grandissima distanza, da tutti gli altri.
Se la preoccupazione dei legislatori è quella che quei rifiuti finiscano la loro vita senza inquinare, possibilmente riciclati, hanno fatto bene ad inasprire, per legge, le condizioni di questo commercio.
Quando però spediamo altrove i nostri rifiuti, vorremmo almeno essere rassicurati sul fatto che i paesi destinatari siano davvero all’altezza dei principi europei. E poi vorremmo anche sapere se il commercio legale è l’unico o se, ancora oggi, come avvenuto in passato, parte di questo commercio è in mano a delinquenti, a organizzazioni criminali più o meno mafiose.
La situazione, paradossale, è questa. Noi, cittadini virtuosi, prestiamo attenzione a dividere i nostri rifiuti per categorie, come gli opuscoli comunali ci hanno insegnato a fare. Siamo diventati bravi, molto bravi, tra i migliori dell’UE. Come mai allora una grande quantità della plastica raccolta in modo differenziato, si trova nelle discariche a cielo aperto o viene bruciata lungo le vie di Adana? La Turchia ha, in un certo senso, preso il testimone cinese. Fino al 2018 era proprio Pechino ad assorbire la maggior parte del traffico di rifiuti provenienti dall’UE, Italia compresa. Poi ha detto “basta! noi rifiuti dall’UE non ne vogliamo più.” Così la Turchia ha alzato la mano: “Ci sono io, che problema c’è?”. In tre anni il volume di ingresso è cresciuto del 300%, ma se consideriamo il dato nostrano, l’aumento è del 500%, passando da meno di 2 mila tonnellate a 11 mila nel 2021. E parliamo della sola plastica!
Già questo è un guaio e contravviene la già citata convenzione di Basilea.
A dire il vero tutto nasce da un rapporto (link) di quei rompiscatole di Greenpeace UK, che ha analizzato l’esportazione delle materie plastiche dal Regno Unito. Il 40% arriva in Turchia, dove, nonostante la legge e le buone intenzioni dichiarate dalle autorità, sono trattate in modo decisamente poco sano. Sotto inchiesta finisce la città di Adana, più di 2 milioni di abitanti, al centro di una delle pianure più fertili della Turchia, la piana di Çukurova, un posto insomma da tutelare con la massima cura. Le fotografie, mostrate dal rapporto, sono inquietanti: campi, confini, sentieri e ruscelli pieni di immondizia e contenitori di plastica etichettati in inglese, spagnolo o tedesco. E proprio dalle etichette, ben visibili, si capisce da dove quei rifiuti arrivano: in primis da Gran Bretagna e Germania, poi Spagna, Danimarca, ma anche da paesi extra UE come il Marocco e Israele anche se non è chiaro se i loro rifiuti arrivino direttamente in Turchia o passino attraverso l’UE.
La domanda che ci facciamo è questa: “perché mai ad Adana quello che non si riesce a recuperare non viene mandato negli inceneritori?”  Ci sono due motivi principali. Intanto le aziende di riciclo dovrebbero sostenere i costi dell’incenerimento, che non sono pochi. In questo modo parte dei loro iniziali profitti andrebbe perduta. E poi, la legge turca sostiene che non è possibile bruciare quella plastica, perché l’incenerimento non è contemplato tra le operazioni di riciclo.
Il risultato sono roghi lungo le strade (ci sono materiali che in questo modo diffondono diossina) e discariche spesso a cielo aperto, con tutte le conseguenze che non è certo difficile immaginare. É grave? Pare proprio di sì a leggere lo studio eseguito dai ricercatori dell’Università di Çukurova, secondo i quali la maggior parte della plastica che arriva da loro non è riciclabile.
E non è solo questo, perché nei container che viaggiano verso Adana, mescolata alla plastica, c’è anche monnezza che non può essere esportata (ad esempio le confezioni di tetrapak). La truffa qui non è turca, è dei paesi di origine che se ne fregano delle norme europee sullo smaltimento dei rifiuti. La piana di Çukurova assomiglia molto alla “terra dei fuochi” nostrana. E, proprio come da noi, i contadini coltivano, vendono e mangiano prodotti inquinati, gli animali si abbeverano in corsi d’acqua che sono pieni di plastica: che bella situazione!
Permetteteci una digressione, a proposito della terra dei fuochi. Non è che da noi sia tutto finito. In ottobre 2023 i carabinieri, coordinati dalla procura antimafia di Roma, hanno emesso 11 ordinanze di custodia cautelare contro imprenditori, mediatori, intermediari di aziende campane. Tutto avviene come negli anni passati con false certificazioni, intestate ad aziende regolari, le quali spesso non ne sanno proprio nulla. É cambiata solo la zona delle discariche abusive, spostata un po’ più a Nord in provincia di Frosinone. (link)
Per avere un quadro generale del commercio illecito dei rifiuti si può leggere Ecomafia 2023, un rapporto che Legambiente e le forze dell’ordine pubblicano ogni anno dal 1994. Uno dei capitoli è dedicato proprio al commercio illegale di rifiuti. É chiaro che i numeri sono parziali perché si tratta di quei delinquenti che non sono riusciti a farla franca, ma sono comunque numeri di tutto rilievo, che riferiscono la situazione del 2022.
Per avere un quadro della situazione basta pensare che la quantità dei rifiuti sequestrati ammonta a più di 60 milioni di tonnellate, una tonnellata per ogni cittadino della repubblica. Si tratta per lo più di rifiuti speciali pericolosi: rottami e metalli di origine industriale (40%), fanghi di depurazione (35%) e altre tipologie come la new entry oli vegetali esausti.
Dove sono diretti? Verso l’Africa, che torna ad essere la zona preferita. Gli stati accoglienti: Marocco, Ghana, Burkina Faso, Senegal, Mauritania e Nigeria. Non mancano le destinazioni all’Est: Bulgaria, Romania, Serbia, Macedonia, Kossovo, Croazia, Slovenia, Repubblica Ceca e Polonia.
Se allarghiamo le indagini, scopriamo che dieci miliardi di tonnellate di rifiuti provenienti dalle industrie tecnologiche, edili e minerarie di Stati Uniti ed Europa, sono finiti nelle più incredibili discariche del mondo, di cui ogni tanto vediamo le immagini inquietanti. Sono moltissime, in paesi poveri, come il Ghana, il Kenia, la Malesia, l’India, il Cile e l’elenco potrebbe proseguire a lungo (link). Qui non c’è nemmeno l’idea di cosa sia il riciclo. Quello che non serve viene bruciato o lasciato marcire. Ci sono enormi discariche specializzate: ad esempio quella di Agbagbloshie, alle porte di Accra, capitale del Ghana, raccoglie i cosiddetti RAEE (rifiuti elettrici ed elettronici), quella di Atacama in Cile una quantità enorme di fast fashion di pessima qualità e perciò altamente inquinanti.
Si tratta quasi sempre di rifiuti arrivati illegalmente. Nel mucchio, ci sono rifiuti tossici a milioni. Attorno a queste enormi discariche crescono concentrazioni di baracche, dove vivono in migliaia con lo scopo di raccattare un po’ di materiale utile (ferro, rame, alluminio) o qualche oggetto da poter rivendere. Il dramma ecologico è grave come quello umano e sociale. Non è raro la nascita di un mercato nero negli stati, e l’intervento delle varie mafie per sottomettere la popolazione, come in Kenia, dove bambini e donne sono pagati quasi nulla per recuperare materie prime da rivendere.
La Commissione Europea ha stimato che almeno il 30% del commercio dei rifiuti sia illegale, con un giro d’affari di circa 10 - 15 miliardi di euro l’anno.
Uno può dire “Chi se ne frega, sono lontanissime da casa mia”. Questo è un concetto sbagliato non solo da un punto di vista etico, ma anche economico e ambientale. Secondo ISWA (Associazione Internazionale Rifiuti Solidi) le discariche a cielo aperto sono responsabili dell’8-10% delle emissioni di gas serra. D’altra parte chiudere queste discariche non è cosa semplice, dal momento che manca completamente una struttura che smaltisca i rifiuti in un altro modo.
Durante gli anni ’80 e ’90 i rifiuti tossici e le armi viaggiavano assieme alle navi della cooperazione che avrebbero dovuto portare vestiti, cibo e medicine ai poveri del terzo mondo. Ora una cosa simile accade, anche se in modo molto differente. Per capirlo, facciamo l’esempio del vestiario. Circa 3 milioni e 700 mila capi di vestiario vengono spediti ogni anno dall’Italia in Kenia. Sicuramente un’opera che riteniamo meritoria e che ci mette la coscienza a posto. Purtroppo dietro questo si nasconde un impatto ambientale notevole. Una ricerca della Changing Markets Foundation (link) rivela che un terzo dei capi contiene plastica ed è di qualità talmente scadente che viene immediatamente gettata in discarica o bruciata La questione non investe solo l’Italia, ma l’intera UE e l’UK. A fare la parte del leone è la Germania con oltre il 41% dei 150 milioni di capi inviati. Come si legge sul report, moltissimi capi donati in beneficienza da persone benintenzionate, finisce per danneggiare paesi come il Kenia. Il motivo è il fatto che la spina dorsale dell’industria fast fashion è la plastica e gli abiti di plastica non sono altro che spazzatura. L’esempio del Kenia si può replicare per altre discariche, ad esempio quella enorme di Acatama in Cile.
Ora, uno dice: “Ma tutto quello che esce dal paese verso paesi non UE deve passare per la dogana e quindi i casi di truffa devono essere scoperti.” Questa è la teoria, ma in pratica?
Per capire la situazione riportiamo un caso accaduto nel 2020, quando 282 container di rifiuti misti sono partiti dal porto di Salerno in direzione Tunisia. Classificati CA (controllo automatico), quei container sono partiti praticamente senza controllo. D’accordo: c’era la pandemia, ma un’indagine del portale web Mongabay, scopre che, anche in condizioni normali, solo il 2% del materiale viene effettivamente controllato. Se poi si tratta di rifiuti con il codice adatto all’esportazione non c’è nessun problema. Ma proprio quei 282 container sono stati un caso internazionale, con un lungo dibattere tra tunisini e italiani sul rimpatrio della monnezza. Ci sono stati arresti e su alcuni aspetti della vicenda si sta ancora indagando. Come sempre, questa storia è solo un indicatore di quello che succede, perché per una truffa che si scopre non sappiamo quanto passano lisce.
Nel momento in cui le diplomazie si sono mosse, buona parte di quei rifiuti è stata data alle fiamme. Solo molto più tardi i materiali sono tornati in Italia, compreso campioni di quelli bruciati. Se ne è occupata la commissione parlamentare d’inchiesta sulle attività illecite nella gestione dei rifiuti. Secondo loro il piano era quello sbarazzarsi di circa 8 mila tonnellate di rifiuti non riciclabili, pagando un quarto della tariffa italiana.
Altri esempi? Eccoli.
Nel 2021 le autorità turche hanno scoperto 114 container tedeschi carichi di rifiuti di plastica non riciclabile in cinque diversi porti. Sebbene la Turchia abbia definito questa spedizione illegale, non ha ricevuto alcun aiuto dalle autorità tedesche per restituire i rifiuti.
Alla periferia di Sarbia, in Polonia, 6.500 tonnellate di rifiuti di plastica riposano in una discarica illegale in attesa di essere rimpatriate alla loro fonte, sempre in Germania. Dopo anni di richieste di ritiro - dal 2018 - la Germania non ha ripreso niente.
L'emittente statale tedesca NRD ha rilevato che, tra il 2015 e il 2020, la Germania ha ricevuto il maggior numero di richieste da Belgio e Polonia per la restituzione di rifiuti illegali. Secondo i dati Eurostat, nel 2022 la Germania ha spedito 149.700 tonnellate di rifiuti di plastica nei Paesi Bassi, 92.380 in Turchia e 81.230 in Polonia.
Nell'ottobre 2019, le autorità bulgare hanno trovato un carico illecito di 127 container pieni di rifiuti misti, etichettati erroneamente con codici che iniziano con 19: sono quelli che indicano i rifiuti provenienti dagli impianti di trattamento. Questi codici sono spesso usati per aggirare la corretta classificazione dei rifiuti.
Più o meno nello stesso periodo, le forze dell'ordine in Italia hanno fermato 17 vagoni ferroviari pieni di rifiuti misti, anch'essi diretti in Bulgaria e dichiarati come 19 12 04.
Nel 2021 e nel 2022, l'amministrazione doganale italiana ha dichiarato di controllare circa il 4% dei container che potrebbero essere stati a rischio di traffico transfrontaliero di rifiuti.
Nel frattempo, mentre 213 container sono stati rimpatriati in Italia, la maggior parte dei rifiuti italiani bruciati giace ancora nella periferia di M'saken, in Tunisia, ricoperta di sabbia. Majdi Karbai, ex membro del parlamento tunisino, sottolinea che non è ancora stata trovata una soluzione.
Cosa si può fare? Spesso la soluzione è quella di bruciare tutto, così, assieme ai rifiuti, spariscono anche le prove.